Da oltre un secolo la storia d'Italia è caratterizzata negativamente da un fenomeno umano e sociale di grandissime proporzioni: l'emigrazione. Nel corso degli ultimi cento anni, 25 milioni dì cittadini italiani sono stati costretti ad emigrare all'estero in cerca dì lavoro, e la stragrande maggioranza di essi non ha fatto ritorno.
Il flusso maggiore di partenze si è verificato negli anni che hanno seguito le due guerre mondiali.
Nel 1919 già si contavano 253.224 espatri; nel 1920 si saliva a circa 600.000 espatriati, dei quali circa 200.000 in Europa e tutti gli altri nei paesi transoceanici: in totale dal 1919 al 1927 la media si aggirava sui 300.000 emigrati l'anno.
Dal censimento generale del 1925 risultò che 16 milioni e 620 mila italiani erano sparsi all'estero: di essi 7 milioni erano dimoranti in Europa, 8 milioni nelle Americhe (5 milioni negli Stati Uniti e 3 nell'Argentina e nel Brasile).
Nella sola New York vi erano in quell'epoca mezzo milione d'Italiani e in Buenos Aires altre 100.000.
Nel periodo fascista vi fu una leggera flessione del fenomeno e nel disegno di una politica nazionalista vennero favoriti i rimpatri dalle Americhe (1929) e gli espatri in direzione della Libia, Eritrea e Somalia per colonizzare quelle aride e desertiche terre. Anche la Germania, in seguito all'alleanza, divenne meta gradita dei lavoratori italiani.
L'inizio della 2a guerra mondiale bloccò bruscamente l'esodo pacifico e registrò anche qualche rientro di giovani accorsi in Italia a difenderne i destini.
Nel frattempo gli Italiani sparsi in Europa, in America, in Africa e in Asia erano saliti a circa 20 milioni.
Con la fine della guerra, con il suo tragico passivo di morti e distruzioni, con la fame e la disoccupazione, l'emigrazione riprese il suo corso più massiccio di prima.
Il Belgio e la Francia furono le nazioni europee che attirarono i primi emigranti minatori del dopoguerra che vi arrivavano su treni malsicuri e rovinati dalla furia degli eserciti nemici.
Successivamente le poche navi risparmiate dalla distruzione bellica azionarono i loro motori e si staccarono carichi di disoccupati dai moli devastati di Napoli e Genova dirette nelle Americhe.
Fu quello un espatrio dettato dalla disperazione, dalla miseria, dai drammatici problemi dovuti agli eserciti che smobilitavano, alla mancanza dell'immediato futuro. Allontanarsi dall'Italia significava trovare il pane per i figli, abbandonare una terra desolata e distrutta che offriva miseria e rovine.
Nel Meridione in generale e in Calabria in particolare questi problemi si sommavano alla secolare povertà, all'abbandono da parte dello Stato, per cui la realtà metteva in evidenza una situazione morale e sociale disperata.
L'unica via che restava da percorrere al Calabrese per sopravvivere era l'emigrazione.
In questo periodo nel paesello di Motta si verificò un vero e proprio esodo di massa: famiglie intere, vendute le povere cose, abbandonarono tutto e si imbarcarono sui piroscafi diretti in Argentina.
I figli si staccarono dai propri genitori per non rivederli mai più, molti giovani, dato un taglio netto al loro mondo che li aveva visti nascere e crescere, andarono ad aumentare il numero dei lavoratori emarginati dei quartieri ghetto della « Boca » di Buenos Aires. È vivo nel ricordo delle giovani generazioni il pianto disperato delle madri, la tristezza dei presenti e degli amici che assistevano alla partenza di questi concittadini, che scomparivano nella nuvola di polvere sollevata dalle « strapuntunate » (le auto di noleggio che portavano i partenti alla stazione di Nicotera), cariche di valigie e di scatole di cartone.
La popolazione di Motta in quell'epoca calò da 1480 a 880 abitanti.
Negli anni 60, in seguito alle carenze evidenziate dai provvedimenti presi dallo Stato Italiano per limitare il fenomeno dell'emigrazione (riforma agraria, industrializzazione del Sud per poli di sviluppo) e al contemporaneo aumento ed ampliamento delle fabbriche del Nord, il movimento migratorio nel Meridione d'Italia rivelò una caratteristica nuova, ma non per questo meno drammatica, che in Calabria assunse addirittura un andamento vertiginoso; non si partiva più per le lontane Americhe, ma si raggiungevano con velocissimi treni i paesi del MEC e le grandi aree metropolitane del nord italia investite dal miracolo economico.
Milano, Torino, Genova, che si apprestavano a diventare le più importanti città industriali produttrici di beni di consumo durevoli (automobili, elettrodomestici ecc.), diventarono i luoghi di grande richiamo di milioni di lavoratori disoccupati del Sud.
La sola Milano registrò in quel periodo un arrivo di oltre un milione di persone, Torino dì mezzo milione, Genova dì quasi seicentomila.
Non solo le campagne e i paesi collinari e montani, ma anche città come Napoli, Palermo, Catania, nonostante la fortissima natalità, videro assottigliarsi le loro popolazioni. Ma il fenomeno determinò i contraccolpi più rovinosi soprattutto nei piccoli centri agricoli dove anche i modesti proprietari terrieri, delusi dalla precedente politica agricola e dal successivo primo « Piano Verde », abbandonarono i loro campi.
In verità si partiva anche per spirito di avventura, attratti dalle luci e dai falsi miraggi delle città con i guadagni facili, per abbandonare i lavori tradizionali dei padri e per raggiungere un'emancipazione che risultò poi essere falsa.
SÌ calcola che nel decennio 61-71 i meridionali emigrati al Centro - Nord o in Europa siano stati 2.317,840, pari all'I 1 per cento della popolazione residente alla fine del 1971.
Questa nuova ondata dì partenze ebbe per Motta effetti catastrofici.
Schiere di giovani con le rispettive famiglie presero la via del Comasco, anche i bambini sradicati violentemente dal loro ambiente seguirono i genitori, riuscendo a fatica e difficoltà ad inserirsi in un tessuto sociale non sempre accogliente per i nuovi arrivati.
La partenza dei giovani ha fatto si che degli 880 abitanti ne restassero appena 400 e che tutte le tradizioni e il fiorente artigianato si esaurissero piano piano. Eppure nel recente passato, gli anziani lo ricordano bene, sette piccole fabbriche di laterizi (ciaramidii) lavoravano a pieno ritmo producendo tegole, mattoni, mattonelle e solai per forni; sei molini ad acqua funzionavano perfettamente.
Venticinque falegnami, sei fabbri, sette sarti, ventisei calzolai, due orologiai e tre tintori costituivano un gruppo assai conosciuto in tutta la regione e fuori per la maestria con cui sapevano realizzare il loro lavoro.
Opere di ferro battuto di Domenico Ariganello si trovano in Roma nella tenuta dei Massara, splendidi mobili di stile si possono ancora oggi ammirare nelle case dei benestanti del circondario. I contadini poi, veri artisti nella potatura e nel preparare il vino, possedevano tutti Ì terreni limitrofi al paese. Diversi frantoi a trazione animale lavoravano giorno e notte trasformando le olive in olio denso e saporito.
Di tutte queste attività non v'è ormai che il ricordo. È difficile oggi come oggi trovare un sarto, un fabbro, un calzolaio, un barbiere, e molte terre, testimonianza di antica e nobile laboriosità, sono state vendute a gente di altri paesi, impoverendo così il patrimonio e l'economia dì tutti.
È finito per conseguenza lo scambio dei fichidindia con le patate dei « Quartieri », il vino ci viene fornito dalle Cantine Sociali di Nicastro e la saporita frutta locale è stata sostituita sulle nostre mense da quella venduta dai commercianti, con grave danno del gusto e del portafoglio.
Anche la vita che si conduce non è quella di una volta, i cittadini riescono a trovare la forza dell'unità e della partecipazione soltanto nelle poche circostanze in cui si verificano gravi lutti e nel periodo di elezioni, il resto del tempo trascorre nel disinteresse e nella monotonia. In verità questa situazione non è solo di Motta, ma è comune a tutti i piccoli centri del Sud colpiti dalla piaga dell'emigrazione.
Certamente le emigrazioni esterne hanno contribuito a rendere attiva la bilancia dei pagamenti (sono stati rimessi 741 milioni di dollari nel 1969) e quelle interne hanno accelerato lo sviluppo economico e sociale della nazione (si sono costruite più automobili, elettrodomestici, case, strade) ma il prezzo che hanno pagato e continuano a pagare questi nostri lavoratori è stato ed è altissimo.
Abbandonare la casa e la famiglia, andare a lavorare nelle grandi città, vivere in una camera d'affitto con più compagni dì lavoro o in una baracca, accettare i lavori più umili e pesanti rifiutati dai lavoratori locali, sentirsi abbandonato e incompreso da tutti, passare di umiliazione in umiliazione, talvolta andare in cerca dì casa e trovare cartelli, com'è successo a Torino, con su la scritta « non si fitta a meridionali », sono tutte cose che il mite lavoratore del Sud ha dovuto subire in silenzio e da solo.
E allora ci si domanda perché tutto questo debba accadere, a quale logica ubbidisce il fenomeno dell'emigrazione, per colpa o a causa di chi si deve emigrare danneggiando l'esistenza di chi parte e di chi rimane.
I motivi profondi che spingono i lavoratori del Sud ad emigrare sono complessi e di non facile soluzione, ma un semplice dato numerico può dare l'idea delle cause più evidenti dell'emigrazione: mentre in Lombardia il reddito medio pro capite si aggira sul 1.700.000 lire, quello della Calabria tocca a fatica le 700.000 lire.
Le cause dell'emigrazione vanno perciò ricercate nella povertà, nell'egoismo di chi possiede i capitali e non li investe preferendo i buoni del tesoro, nel rapace sfruttamento dell'uomo sull'uomo, nell'atavica mentalità, nella diffidenza che regna nelle nostre contrade verso la moderna ed indispensabile concezione della cooperativa, nonché nei forti squilibri geografici e storici, settoriali e sociali derivanti da una insufficiente e disarmonica struttura politico-amministrativa del paese.
Valmadrera, la cittadina lombarda della provincia di Como nella quale è raggruppata la maggior parte degli emigrati mottesi ha 12.000 abitanti, è situata a 234 metri di altitudine tra il ramo di Lecco del lago di Como e il lago Annone. È un fiorente centro industriale (acciaierie, fonderie, seterie, saponifici) costituito dal centro storico con le viuzze strette e buie (Inferno, Ceppo, Cadelloggia, Gianvacca ecc.) e dalle nuove zone di espansione ricche di palazzoni moderni e tutti uguali, che danno bene l'idea del grande sviluppo economico verificatosi in questi ultimi venti anni.
In questa città dell'hinterland lecchese hanno trovato lavoro e sistemazione circa 500 mottesi che hanno formato una comunità nella comunità.
I rapporti intercorrenti fra gli abitanti del posto e gli emigrati, tanto diversi per carattere ed estrazione storica, sono improntati ad un corretto vivere civile, tant'è che molti lavoratori mottesi hanno contratto matrimonio con giovani del luogo; tuttavia chi è stato costretto ad emigrare porta dentro di sé un passato che lo pone forse anche inconsciamente in condizioni d'inferiorità nei rapporti sociali.
Visitando questa cittadina si ha l'impressione che i nostri lavoratori vivano con discrezione, in punta di piedi, sicuramente non da protagonisti.
Raggruppati in piazza Dante davanti alla bella chiesa parrocchiale di stile neoclassico, discutono, si informano delle vicende che accadono al paese natio in un clima di solitudine, di nostalgia. Molto legati al paese d'origine, per mantenere vivo il senso della continuità, si sono fatti realizzare una statua dei Santi Cosma e Damiano, che hanno sistemato nella Chiesa Matrice.
Nel mese di Agosto ritornano in massa al paesello, sulle loro automobili luccicanti, per trascorrervi le ferie, per rivedere i propri cari, gli amici con i quali veramente si sentono in comunione.
Molti di questi nostri lavoratori, se avessero la possibilità di un lavoro stabile nella zona del Vibonese, ritornerebbero senza esitazione a Motta a vivere nei luoghi dove trascorsero la loro infanzia.
Una prospettiva questa e una speranza che riveste senza alcun dubbio la parte più delicata e importante della « questione meridionale ».
(Tratto dal libro "MOTTA FILOCASTRO" di Giuseppe Ingegneri)